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Lotto 32 - Asta 32

DERUTA, Giacomo Mancini, detto il Frate, sec. XVI, metà.Alzata ad ampio corpo con parete leggermente arrotondata a ... Leggi tutto
Aggiudicazione:
20.000,00 EUR
Numero offerte:
1

Offerte

Stato lotto:
Asta chiusa

Descrizione

Alzata ad ampio corpo con parete leggermente arrotondata a coppa, bordo diritto su piede estroflesso. Maiolica dipinta in policromia e ad oro: recto istoriato, “Ratto di Ganimede”; verso, anepigrafo.
Ø cm. 25; h. cm. 16,5.
Cond.: ottime. DERUTA, Giacomo Mancini, detto il Frate, sec. XVI, metà.
La coppa è una delle rare opere dipinte con scena mitologica dal pittore derutese Giacomo Mancini, detto il Frate. Presenta il mito del rapimento del bellissimo giovine, Ganimede, mentre era a caccia con gli amici ed i cani, per portarlo nell’Olimpo dove diverrà il coppiere degli Dei. Tuttavia Giove, come di solito, si trasforma e qui appare come aquila, la quale, pur con affilati artigli, solleva il corpo senza ferirlo. Ganimede è visto nel momento in cui lascia il bianco cavallo dalla ricca bardatura, il quale si impenna e non sa che fare. La scena è ambientata en plein aire, durante una battuta di caccia. In primo piano un cacciatore appare meravigliato e non sa reagire all’evento, anzi tenta di scappare seguito dal cane. Lontana è la città che sfuma nell’azzurro. Il mito è molto antico; ne tratta Virgilio nell’Eneide e Stazio nella Tebaide; in ambito rinascimentale molte sono state le xilografie sul mito e molte ne sono state le interpretazioni filosofiche. Seguendo Marsilio Ficino, esso è stato visto come distrazione dalla vita attiva (la caccia) per la scelta di una più riflessiva. Comunque sia, il mito è stato molto amato e rappresentato. Qui rivela una ascendenza dalla xilografia attribuita al maestro IB, identificato in G.B. Palumba, incisore veneto attivo nei primi decenni del’500. Il pittore umbro utilizza una particolare anatomia dei volti, con i tratti distesi, ed una cromia basata in modo notevole sul giallo, che qui contrasta con il luminoso bianco de cavallo e con il nero dell’aquila. Giacomo ama l’ambientazione in paesaggi fuori città, come si può notare anche nel bel piatto con “Santa Cecilia” all’Ermitage, firmato con la F (Ivanova 2003, n. 25). Alcune sue opere sono datate dal 1541 al 1545 (Fiocco- Gherardi 1984, passim) ed allo stesso torno di tempo datiamo questo bel piatto, dove il pittore ha aggiunto alla sua personale cromia anche la doratura del lustro a terzo fuoco, sì da creare ricercate iridescenze.
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